Ritorno dalle zone del delirio - itFrancofonte

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NEL MIO STATO

Ritorno dalle zone del delirio

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In: “Ritorno dalle zone del delirio” concludo ciò che ho iniziato in: “La ricerca del modo per andare oltre lo specchio.” Anche se spero che la ricerca non finisca mai.

È sbagliato lo so ma ho adattato lo scritto all’occasione (omettendo volgarità alcune sostituite da “###”), per leggerlo senza censure basta chiedere e un bonifico al sottoscritto.

La parola ritorno è usata di proposito in modo ambiguo perché lascia decidere al lettore se si tratta di “un ritorno lì” o “un ritorno da lì”.

Per evitare rotture di monitor (a volte necessarie per tornare alla realtà) spiego da adesso che molte parole sono usate in modo ambiguo di proposito, dove però molte altre no.

Perché? Lascio pure questo decidere al lettore.

Nella prima parte mancava l’azione però ho colto il suggerimento ed evitato stati d’animo.

Quindi tutto sarà narrato con una figura retorica dalle gesta del protagonista che chiamerò “Io” e parlerà in prima persona.

Ma in compenso ho provato a inserire la tecnica dell’iceberg.

Ho spiegato pure troppo e questo non va bene perché confido nell’intelletto (inteso nel significato originario e “cattolico” di “saper leggere dentro”) del lettore.

Spero vi piaccia o forse no:

Dovevo pensare a un incipit migliore. Dovevo. Stesso pensiero la sera mentre strofino pomata; perché dovevo bere di meno. Dovevo. – Ehi ma tu puzzi!

M’annuso. Pensa un po’, Io non sento più nulla. “Arriva sempre il momento quando vorresti diventare e volessi, vodresti.” No, congiuntivo. Com’era? Troppe regole da ricordare.

–  Abbassa i piedi! – Sì, professoressa. –  Cosa?

Abbasso i piedi. Infilo la mano in tasca per grattarmi le ###. Ho i jeans appiccicosi.

– Puzzi, – dice. M’annuso e strofino il moccio colante sulla giacca a jeans. – E puzzi di alcool!

“Puzzi di alcool, ma ne devo sentire di ###” – Pppfff. Sfoglia un fascicolo. “Finge. Guardami dai. È infastidito;  fastidio che prova davanti a ciò che ritiene immorale e non siamo tanto diversi.”

 Mette in riga gli occhiali, sprofonda nella sedia. – Perché ancora ti tengo in contratto?

– Tutta grigia è questa stanza. Hai notato? ­– dico Io. – Adesso consigli arredamenti? – Perché ti piace come scrivo.

 – Bella questa. Non porti materiale da mesi. Manco mezza riga. E mi dispiace ricordarti che il tuo ultimo lavoro…

Balzo dalla sedia verso la finestra. Guardo sotto: “Materiale. Sono materiale io?”  – Sto giusto pensando a un racconto. – dico. In fondo vedo una luce; il bar è aperto. “Hai il coraggio di salire sul cornicione?” mi chiedo. “Forse. Da qui il bar è alla distanza di un salto. Il famoso salto di qualità.”

Immagine Finestre

– È per caso un’altra storia sugli affari tuoi? – Seee? Un’altra storia sugli affari tuoi??? – Che fai prendi in giro? – Che fai, prendi in giiiroo?

Si gira dall’altra parte ridendo, – Quando fai così sei poco professionale. – Se paghi così poco racconto i tuoi d’ affari.  – Tu sai quanto ci tengo al tuo lavoro, questi tuoi modi, sono…

 – Sì, sì va bene. Dammi un anticipo non una predica. Incastra le mani sul ventre. – E su cosa? Stai scrivendo qualcosa? Fammi vedere una riga.

Abbasso lo sguardo:  – Come no, – rispondo e poi tiro su con il naso. ­– Come l’altra volta? Non rispondo.

 Apre il portafoglio. – Ti bastano cinquanta? – dice posando la banconota sulla scrivania.

Raccolgo, ma sono due pezzi da cinquanta. “L’ha fatto di proposito.”

– Ma questa volta porta qualcosa, ti posso aiutare, – dice, poi morde una penna, sdraia lo schienale e posa piedi sulla scrivania.

“Se.” – Ora ho da fare! – Non ti stavo facendo la predica. – Sai perché mi tieni? – dico mentre guardo lui e i suoi piedi sulla scrivania.

– No. Sentiamo.

Vodresti essere me o come me.

– Ma  o ###!

Sbatto la porta; non sento più nulla.  “Ma cos’è ‘sta puzza”.

 C’erano altri a lavoro nei loro mini uffici da separé: chi al pc, chi con due telefoni. Nessuno a grattarsi o con i piedi sulla scrivania.

Arrivo all’uscita. Portiere, vecchiaccio. Mi saluta alzando il dito medio senza alzare lo sguardo dalle parole crociate.

 – ### baffuto! – sbraito.

“Baffuto ­- uto – uto”. La parola rimbomba nel corridoio; rimane lì. “L’unico con cui ho confidenza in questo posto.”

Sono fuori. Fa freddo. A momenti si ghiaccia. Nevicherà o che ne so, non faccio il meteorologo. E chi lo fa nemmeno sa un accidenti del tempo.

A casa stessa cosa; non pago i riscaldamenti, non pago bollette da non so quanto, non ho intenzione di pagare e non ho come pagare. Slega questo nodo.

Di fronte ho la piazza, la taglio. Bella; costruita non so quando e da chi e a cosa gli serve adesso.

Ho fretta ma dovrei  rispettare la narrazione dirò quindi: dovrei.

Guarda là vicino alla fontana, solito sudicio barbone sui cartoni. Ci passo, accarezzo il Golden che tiene accanto: – Amico puzzi!

Ride.

– Ridi. Manco bisogno di cercare l’elemosina hai ormai!

Il sorriso e il cartone, perché quel coso ha più di me?

Immagine Barbone

Entro. Non saluto; questo fa incavolare il barista.

– Cacchio guardi! Portami da bere ### pure tu!”.

– L’altro ### sei tu?

 Mi avvicino al bancone tenendo fisso lo sguardo contro il suo. La sua tigna quasi abbaglia. Unica cosa a emettere luce là.

 Gli do la mano. La guarda, poi guarda me. Ha le mani occupate; non ricordo a fare cosa. Inizio a sentire i bicchierini del pranzo.

 – Hai i soldi?

 – Altrimenti? “E ridi caspita a te.”

Mano in tasca, poi stiro il braccio con in mano la frasca. Smette di fare quello che stava facendo e mi dà la mano. – Sei un amico, – dice prendendo la banconota.

– Se me ne offri uno pure tu mi sei amico.

– ### al figlio di mio padre, – risponde.

 – E poi mi darai da bere gratis? Ma lui con la mano mi indica la strada per quel paese

Siedo in uno sgabello alto da bancone. Lui inizia a gettare bottiglie in aria. Flair, mi dice che si chiama così. Gli dico che a me sembra uno scimpanzé.

 Un minuto dopo mi passa un bicchiere. Sorseggio. Un suo esperimento, forte ma ‘na porcheria. Continuo a sorseggiare; ci devo fare una serata con questo. Mi guardo attorno, torno il me pensieroso pensatore.  

Posa  il resto, sbatte una moneta sul bancone di marmo: – Ho fatto lo sconto.

– Grazie. “A ti sei cacato tutto.”

Dopo questa, lascio lo sgabello. Voglio uscire, ma tremo. Riesco a sedermi in un tavolo e miro il tragitto tavolo – bagno. Pochi passi. Un piccolo passo per un ubriacone un grande passo per l’uomo.

Dovevo descrivere prima che si tratta di un bar simpatico, gestito da una mezza pazza letterata ed è solo per altra gente letterata e ha chiamato le birre con i nomi degli autori e a volte…

“Cacchio!” mi giro dall’altra parte. È entrato quel tizio. Ha qualcosa di Santo che mi dà troppo fastidio. Incredibile. Mai che si ferma a predicare. Peggio ancora.

– Eii! “Caspita, perché l’ho chiamato?”

Si gira, sorride, si avvicina.

– Come stai?

– Seduto.  – rispondo. Troppo fastidiosa la sua sincerità. Non chiedo come sta. – Siediti, ti prego.

– Veramente…

Trascino una sedia dal tavolo alle sue ginocchia. Sorride, poi si siede.

– Cosa prendi? – chiedo.

– Nulla, grazie.

– QUANDO SMETTI DI FARE IL ### CI PORTI DUE TEQUILA!

 Che ora è gli chiedo, mi dice le quattro, allora gli sto per dire: “Caro, io reggo l’alcool e scrivo meglio di te e ammettendo il contrario, io sono invitato ovunque, te nessuno ti calcola!”

– Sai mi piace il tuo ultimo lavoro, – dice.

– Dici? È stato spazzato da tutti. E mi bevo la seconda tequila.

– È buono, è scritto con cura e sincerità.

Ecco perché nessuno legge le tue cacchiate. Penso, a no, pure lo dico. Ma lui ecco che ride.

– Hai fatto il passo che ti farà uscire a poco a poco dalla disperazione. Capire la vita non rende felici, viverla rende felici.

Gli rifilo un colpo da maestro fingendo di dormire.

Immagine Bar

– Comunque, ha smesso di piovere.

– COSA?  – dico fingendo di svegliarmi.

 – Niente è meglio che tu non abbia ascoltato, perché cercherai le tue risposte da solo. Pausa e poi stira la mano: – Ciao. La stringo.

“Cacchio mi ha rifilato la  predica.”

Mentre esce mi guarda come chi ti vuole aiutare. Mi giro dall’altra parte; non voglio affrontare il suo sguardo.

Sculetta arrivando la pazza letterata della proprietaria. Saluta e si siede e fa arrivare subito un doppio whisky per Io, poi rimane; ha con sé un altro capolavoro di uno dei suoi pupilli: – Questo tizio trattato male da tutti al suo paese, scappa e ne fa ritorno dopo sette anni e…”

 – E perché cacchio c’è tornato a fare, – dico.

Poi rimane ancora, – Perché ci metto la faccia pubblicizzando chi lo scrive.

E auguri.

Ah, – Lo leggerai? – chiede.

– Sono pieno di lavoro, – rispondo.

Poi via a leggere il capolavoro.

– Che robba! – dico al barista. Non  risponde, si gira.

Ah si? Allora gli sputo a terra. Ora sono apposto; posso uscire. Ecco entra l’editore. Mi guarda.

– No. No.

– Vuoi…

– Sei qui. – dice e scuote la testa.

– Io…sai…si dice: “Scibi da sllbr solbrio o scoreggia da ubriaco corecgi” o “scrivi da sbrozno e coregi da mbriaco o sobrio”

Scuote la testa.

Sbatto i pugni sul tavolo. – Noooon seeei ploplio di compagnia! – dico, poi parto col destro.

Schiva, m’acchiappa il colletto. Forse mi sono parato la faccia. Dico forse; troppo male al naso.

– Wuaaattààà!!! Io saccio il karate! – dico mentre lo guardo da sdraiato sul pavimento. Intimidire è tutto. Riprendo fiato e sferro un calcio. Schiva e mi sferra il suo al fianco. Te l’ho detto ormai Io non sento più nulla.

– Ci risiamo, – dice il barista. – Aiutami.  

Mi alzano. Ecco che tutto trema tutto trema tutto trema. Suspense. Fine suspense. Vomito. Mi lasciano cadere, di faccia. Vomito di nuovo.

Vomitare fa bene. Sdraiati di faccia, no. Scelta poco salutiva ma Io sono un duro.

– Maledetti!

Il barista mi usa come straccio per pulire il vomito. Entra nello sgabuzzino. Porta un telo di plastica; mi arrotola come un salame.

L’editore ride e il barista si giustifica: – Mi schifa toccarlo.

Mi sveglia il freddo dopo non so quando e non so quanto. È notte. Riconosco la piazza. Poco distante c’era quello; il barbone. Russa. Usa il cane come cuscino. – A ME PARE CHE RIDI DI ME! Mi trascino lì. Manco tengo gli occhi aperti.                                                                                                                                       

– Dammi il cartone! “Ha più di me” penso mentre lo strattono. Si sveglia, ride, mi fa posto. Devo salvare l’orgoglio: – Non hai capito un cacchio. Miro le costole. Sboof. Si accascia di lato.

 – È mio! – spiego e il cane piange, calcio pure lui?

Prendo il cartone e vado e barcollo. Mi giro e il cane piange. Adesso sentivo la puzza. Puzzo più io o il cartone? Barcollo. Ho fame e ho freddo e tutto gira intorno alla piazza, piaaazzaa.

 La fontana, la fontana.  Sento il glu glu glu. Puzzo e mi avrei dovuto lavare la faccia, magari gli occhi si aprono. M’avvicino.

Non tengo a galla. Dico, perché una piscina olimpionica in centro di piazza. Prima o poi qualche cretino ci annega. Non tengo a galla.

Mi tirano, lo so perché sento ancora più freddo. Lasciatemi annegare nel mio inconscio. È solo un sogno. Qualcuno mi trascina, adesso so che c’è il pavimento medievale nella bella piazza.

Arrivo vicino non so dove e qualcuno mi spoglia e mi riveste con non so cosa. So solo che puzzavo prima e puzzo adesso. Convulsioni da freddo.

Mi sveglio e c’è il sole e non c’è il barbone. C’è solo il cartone e un bicchierino di caffè vuoto e io ho l’odore di caffè amaro in bocca e c’è vomito ovunque. Poi mi alzo e sto abbastanza meglio ma puzzo ancora che sia chiaro.

Gattono fino a casa.

Nemmeno dal bagno passo perché mi siedo alla scrivania e inizio a scrivere, questa storia, più scrivo e più mi sento pulito, ma dentro, fuori puzzo ancora e adesso è finita.

Anzi no, vado, pago da bere al mio amico barbone.

Ritorno dalle zone del delirio ultima modifica: 2021-03-09T10:30:55+01:00 da Ivan Lo Pizzo

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